Ondata dei super dazi USA: dal 9 aprile scatta l’incremento dell’aliquota tariffaria

Dal 5 aprile è in vigore la prima ondata di dazi reciproci del 10% imposti all’Unione europea dal Presidente Trump. Ma ad allarmare le imprese è ora la data del 9 aprile, quando scatterà l’incremento dell’aliquota tariffaria, con il dazio addizionale del 20%, applicabile in aggiunta a quelli già in vigore. Si tratta di oneri doganali ancor più severi di quelli introdotti dal 3 aprile: a differenza dei dazi del 25% su acciaio, alluminio e auto, le nuove tariffe reciproche, infatti, andranno a sommarsi alle normali aliquote già previste per l’importazione di articoli europei negli Stati Uniti.

Le nuove misure commerciali colpiscono in maniera significativa quasi tutti i principali prodotti del Made in Italy, con notevoli ripercussioni sulla competitività e l’export di molti settori produttivi. I nuovi dazi colpiscono in maniera orizzontale tutte le tipologie di prodotti, da quelli economici a quelli di fascia alta, senza nessun esonero per i beni a basso costo o per i generi di prima necessità. A essere colpiti non sono, infatti, soltanto i prodotti d’élite, come vini pregiati o auto di lusso, ma anche beni semplici e di uso quotidiano, tra cui generi alimentari essenziali (pasta, olio, pane), nonché abbigliamento, prodotti di arredamento e dispositivi elettronici. Si pensi, per esempio, a un vino italiano standard: generalmente l’imposta richiesta alla frontiera USA per un vino entry level è pari a 1,5 dollari per litro di prodotto. Sommando tale importo ai dazi reciproci del 20% in vigore dal 9 aprile, l’aliquota richiesta per l’ingresso dei prodotti vitivinicoli sfiorerà i 2 dollari al litro. Allo stesso modo anche i prodotti di arredamento per la cucina, che normalmente dovrebbero scontare un dazio pari al 42,5% del loro valore, saranno soggetti a un aumento delle tariffe all’importazione del 62,5%.

In questa applicazione indifferenziata, a essere penalizzati saranno principalmente i prodotti più economici, che risentiranno di più della competizione sui prezzi e della concorrenza di Paesi destinatari di tariffe più contenute. Rimanendo nel settore agroalimentare, un vino italiano economico potrebbero essere sostituito da un vino prodotto in un Paese ai quali il governo Usa ha imposto dazi inferiori ai nostri: per esempio, Argentina, Cile e Nuova Zelanda, che avranno dazi doganali del 10%. Per i beni di altissima gamma, che un pubblico affezionato e grandi capacità di spesa può permettersi di acquistare a qualsiasi prezzo come il Brunello di Montalcino o l’Amarone, il fattore economico potrebbe non essere decisivo e ci sarà sempre qualcuno negli Stati Uniti disposto a comprarli.

L’aumento delle aliquote avrà un impatto significativo sull’export italiano: gli Stati Uniti rappresentano il primo mercato di destinazione del Made in Italy, per una quota pari al 10,4% delle nostre esportazioni al di fuori dell’Unione europea e per un valore, nel periodo gennaio-ottobre 2024, che ha raggiunto i 21,43 miliardi di euro. La guerra commerciale di Trump minaccia, dunque, una forte riduzione delle esportazioni europee verso gli USA, con un generale decremento che i primi studi stimano intorno al 17%.

La Commissione europea, nel frattempo, sta valutando possibili contromisure, quali l’applicazione di controdazi su una selezione di prodotti statunitensi (jeans, motociclette, burro d’arachidi, succo d’arancia e di mirtillo). Fino a oggi, l’Unione europea ha mantenuto un cauto riserbo sulle possibili risposte alle misure commerciali degli Stati Uniti, rinviando sia il ripristino dei dazi del 2018 e del 2020 su acciaio e alluminio (regolamento di esecuzione (UE) 2018/886) sia il pacchetto di nuove tariffe che avrebbero dovuto colpire una vasta gamma di prodotti americani come tessuti, pelletteria, elettrodomestici, utensili per la casa, plastica, prodotti in legno, pollame, carne bovina, alcuni frutti di mare, noci, uova, latticini, zucchero e verdure, per un valore totale complessivo fino a 26 miliardi di euro. L’Unione europea deve valutare attentamente le aliquote dei controdazi e i prodotti da colpire: applicare tariffe considerevoli, anche nell’ordine del 25 o del 50%, su prodotti come microchip o altre componenti strategiche per noi indispensabili, penalizzerebbe ancor di più i consumatori finali, che sarebbero costretti a cercare alternative locali ai prodotti americani, difficilmente reperibili. Al contrario, contro tariffe su prodotti agroalimentari genererebbero meno problemi: il succo d’arancia, per esempio, potrebbe arrivare dalla Sicilia o da Paesi del Nord Africa.

Attualmente, le istituzioni UE stanno negoziando sia con Washington che con i Paesi membri, i quali hanno presentato delle liste di prodotti che vorrebbero preservare affinché non ci siano ripercussioni sulle economie interne. È un equilibrio complesso: da un lato, serve mettere sul tavolo eventuali contromisure destinate all’economia americana, in un’ottica di deterrenza; dall’altro, evitare di danneggiare le industrie locali.

 

Sara Armella

Giovanni Belotti