Brexit tre anni dopo: per Londra è come un veleno a lento rilascio
Gli investimenti hanno subito un calo dell’11%, le esportazioni britanniche verso l’UE sono scese da 70.000 a 42.000 tipi di prodotti e, secondo Thomas Sampson, economista della London School of Economics, gli scambi commerciali del Regno Unito con l’Unione europea si sono ridotti del 15%.
Come con un veleno a lento rilascio, ogni settimana Londra deve fronteggiare un nuovo problema causato dalla Brexit, di cui continuano a manifestarsi gli effetti. Nei giorni scorsi, il gruppo Stellantis, nel corso di un’audizione al Parlamento inglese, ha manifestato il rischio di dover chiudere alcuni importanti siti produttivi nel Regno Unito, se non sarà rinegoziato l’Accordo con l’Unione europea.
Le case automobilistiche con fabbriche in Gran Bretagna dovranno pagare, a partire dal 2024, dazi del 10% per esportare i loro veicoli elettrici in Europa, a causa delle regole di origine previste dall’accordo Brexit, che esentano dalle tariffe doganali europee i prodotti realizzati per almeno il 45% in UK. L’industria automobilistica rappresenta un segmento produttivo molto importante per il Regno Unito, fin dai tempi in cui la Premier Thatcher ha attirato molte imprese giapponesi a investire in UK come porta d’accesso al mercato europeo di 500 milioni di consumatori, prospettiva che ora si è ridotta sensibilmente con l’uscita dall’Unione europea.
Ogni settimana sondaggi e pubblicazioni sollevano un nuovo problema causato dalla Brexit, mettendo in luce aspetti di cui nei media britannici si parla raramente e poco volentieri. Durante la campagna elettorale, Brexit era stata presentata come una semplice scelta di campo ideologica tra il “leave” e il “remain”, senza sufficienti approfondimenti sulle conseguenze economiche del distacco dal mercato comune europeo. Ne sono stati valorizzati gli aspetti politici, mettendo in evidenza l’idea di una sovranità e di una libertà da recuperare pienamente, sottraendo potere alla burocrazia di Bruxelles.
Le promesse dei vari premier britannici che si sono succeduti negli ultimi anni si sono rivelate poco realizzabili. “Nessun dazio sui prodotti inglesi”: un’affermazione vera che non teneva conto di quanto, oggi, le economie siano interdipendenti e di come ogni prodotto industriale contenga un componente, una tecnologia o una parte che è stata realizzata all’estero (come il caso delle batterie elettriche delle auto) e che, facendo perdere al prodotto l’origine preferenziale UK, comporta la tassazione alle frontiere europee. Anche l’idea di dar vita a un ambizioso accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, che avrebbero dovuto sostituire l’UE per volumi di traffici, grazie a una relazione commerciale preferenziale, si è rivelata complessa e molto lontana da realizzare.
A distanza di oltre tre anni, si affrontano ora gli effetti economici sul medio periodo, si misurano le minori esportazioni verso l’Unione europea, i maggiori costi per le importazioni, si valutano le conseguenze sull’economia reale. Il Centre for european reform ha stimato che, nel secondo trimestre dello scorso anno, il Pil del Regno Unito era inferiore del 5,5% rispetto a quanto sarebbe stato, se il Paese fosse rimasto nell’Unione europea. Gli investimenti hanno subito un calo dell’11%, le esportazioni britanniche verso l’UE sono scese da 70.000 a 42.000 tipi di prodotti e, secondo Thomas Sampson, economista della London School of Economics, gli scambi commerciali del Regno Unito con l’Unione europea si sono ridotti del 15%, a causa dei nuovi dazi, dei ritardi alle frontiere, della burocrazia. Gli standard tecnici dei prodotti, i certificati e i documenti di accompagnamento, le procedure doganali rappresentano un ostacolo soprattutto per le piccole imprese, che hanno visto sensibilmente ridotte le loro esportazioni verso il continente europeo.